Statali, Comuni, scuola e sanità trovano l' aumento a
«elastico»
Da gennaio 2019 si perde fino al 24% degli incrementi di quest' anno
Dopo otto anni di blocco e lunghi mesi di
trattative, i rinnovi contrattuali dei dipendenti
pubblici hanno cominciato a passare dalle
parole ai fatti. Chi lavora nei ministeri, nelle
agenzie fiscali o negli enti pubblici non
economici come l' Inps e l' Aci ha ricevuto gli
arretrati una tantum (da 370 a 712 euro) il 1°
marzo e gli aumenti nel cedolino dello stesso
mese.
Negli altri settori l' attesa non dovrebbe essere
lunga: gli accordi sono stati firmati tra il 9 e il
23 febbraio e, dopo i passaggi in Corte dei
conti e Consiglio dei ministri per il via libera
finale, dovrebbero far sentire i propri effetti
sulle buste paga di aprile: più o meno nei
giorni in cui gli oltre tre milioni di dipendenti
pubblici voteranno il rinnovo delle Rsu nei loro
uffici.
La corsa preelettorale,
anche se non ha avuto
grosse ricadute sul voto degli statali, è riuscita
insomma a sbloccare uno stallo pluriennale.
Ma ha contribuito a un inedito assoluto per i
rinnovi contrattuali: gli aumenti "con l' elastico".
Le buste paga di oltre due dei tre milioni di
dipendenti pubblici entrano infatti in una sorta
di altalena che vede aumentare gli stipendi in
questi mesi, per poi perdere un pezzo a partire dal 1° gennaio prossimo.
A muovere l' altalena è il cosiddetto «elemento perequativo», cioè un tassello aggiuntivo pensato per
sostenere un po' i redditi più bassi. Aggiuntivo ma temporaneo, con il risultato che si
vedano le tabelle
elaborate dal Sole 24 Ore sulla base dei nuovi contratti i
dipendenti di regioni e sanità (un milione di
persone in tutto) perderanno da gennaio una ventina di euro al mese, cioè circa il 24% dell' aumento. E
una sorte simile toccherà a chi occupa gli scalini più bassi nella gerarchia statale e agli insegnanti con
meno anzianità. Un dato chiave emerge chiaro proprio dai numeri qui a fianco: per la natura
«perequativa» dell' aumento ballerino, a perdere di più sarà chi guadagna meno.
La corsa ai rinnovi, in un calendario scandito dagli appuntamenti elettorali, aiuta a spiegare le origini di
questo yoyo
retributivo. La storia inizia con l' intesa firmata dal governo Renzi con i sindacati il 30
novembre 2016 che, quattro giorni prima del referendum costituzionale, aveva promesso a tutti i
dipendenti pubblici «aumenti medi» da 85 euro lordi al mese.
L' attuazione di quell' accordo, però, ha dovuto fare i conti con i meccanismi dei rinnovi contrattuali.
Nonostante le intenzioni iniziali di distribuire gli aumenti con un sistema a "piramide rovesciata" (più
soldi a chi guadagna meno), alla fine si è imboccata la classica strada dell' intervento lineare: strada
dettata dalle pressioni sindacali, ma anche dalla difficoltà tecnica di prevedere davvero scansioni
diverse.
Come in tutti i rinnovi del passato, quindi, si sono fatti un po' di calcoli per trovare la percentuale di
aumento, uguale per tutti, da applicare alle retribuzioni medie di ogni settore.
Il numero magico, plasmato sui dipendenti ministeriali finanziati direttamente dalla legge di bilancio, è
stato individuato nel 3,48 per cento. Di qui il primo problema: la stessa percentuale, nella maggioranza
degli altri settori della Pa, produce un aumento più basso degli 85 euro medi promessi dall' accordo,
perché gli stipendi sono più leggeri.
È nata anche da qui l' esigenza di puntellare i redditi più bassi con l' elemento perequativo, che ha
racimolato risorse nei vari settori per raggiungere o almeno avvicinare l' obiettivo degli 85 euro.
L'«elemento perequativo» è stato sostenuto anche con l' esigenza di sterilizzare l' effetto degli aumenti
contrattuali sul diritto al bonus da 80 euro. Ma i numeri dicono che il rapporto fra i due fattori è casuale,
e quasi inesistente. All' inizio del confronto sui nuovi contratti, i calcoli dell' Aran hanno individuato
309mila dipendenti "a rischio" perché i loro stipendi si collocavano nella fascia fra 24mila e 26mila euro,
quella in cui il bonus Renzi scende al crescere del reddito. A loro, l' aumento (lordo) portato dai contratti
sarebbe costato la perdita parziale o totale degli euro (netti) garantiti dal bonus.
Del problema si è occupata l' ultima manovra, che ha alzato da 24mila a 24.600 euro la soglia sopra la
quale il bonus Renzi comincia ad alleggerirsi, e da 26mila a 26.600 quella da cui si azzera. La mossa
riguarda anche i dipendenti privati, risolve (in parte) il problema degli statali, ma non riguarda la
maggioranza degli stipendi più bassi rafforzati dall' aumento temporaneo (26mila euro significano 2mila
euro lordi per 13 mensilità).
La questione, insomma, è destinata a tornare d' attualità con la prossima manovra, che dovrebbe anche
trovare i soldi per un altro rinnovo contrattuale perché le intese dei mesi scorsi riguardano il triennio
20162018.
Ma le incognite che circondano governo e conti pubblici rendono vano ogni vaticinio sul
punto.
gianni.trovati@ilsole24ore.com © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Gianni Trovati
19 marzo 2018
Pagina 2 Il Sole 24 Ore