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Ecce: ego mitto vos sicut oves in medio luporum; estote ergo prudentes sicut serpentes et simplices sicut columbae. 
Cavete autem ab hominibus; tradent enim vos in conciliis… MATTHAEUM, 10,16-17.

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Passo gran parte del mio tempo, non a difendere la Legge, come vorrebbe la vulgata corrente, che mi qualifica enfaticamente “sentinella della legittimità”, ma piuttosto a difendere me (e quelli che a me si affidano) dalle angherie di una legge sempre più incomprensibile ed ottusa… Ossia vivo una realtà che è l’opposto rispetto a quella che ipocritamente si rappresenta.


"Forse oggi l’obiettivo principale non è di scoprire che cosa siamo, ma piuttosto di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremmo diventare"
(M. Foucault)
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Discussione libera proposta da: il 14/05/2018 alle ore 22:25
L'aborto non è più un reato

Gigliola Pierobon, la contadina veneta grazie a cui l'aborto non è più un reato

Nel 1973 la ragazza finisce alla sbarra. E dal suo caso iniziò la battaglia che portò alla depenalizzazione dell'interruzione di gravidanza e poi alla legge 194

di Chiara Valentini 

14 maggio 2018

 

 Gigliola Pierobon (foto archivio Unità) Il momento d’inizio della lunga battaglia per la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza fu, probabilmente, 
il processo a Gigliola Pierobon: una ragazza figlia di contadini 
di San Martino di Lupara, provincia di Padova, processata nel maggio del 1973 per aver abortito. Rimasta incinta a 17 anni 
e abbandonata dal suo ragazzo, terrorizzata dall’idea di essere cacciata di casa, Gigliola aveva conosciuto il triste percorso dell’aborto clandestino: il tavolo di cucina di una mammana, una sonda rudimentale piantata in corpo, un dolore atroce, 
una grave infezione. La sua avvocata, Bianca Guidetti Serra, trasformò il processo in un evento politico-mediatico. E Gigliola in un’aula gremita di pubblico femminile, scandì: «La mia storia è quella di tante altre e il mio “reato” è un fatto commesso ogni anno in Italia da più di tre milioni di donne».

Il dato era forse esagerato (secondo il ministero della Sanità la cifra, comunque impressionante, era di 750 mila). Ma il problema dell’aborto, ancora vietato dalle norme di epoca fascista e inserito fra i delitti “contro l’integrità e la sanità della stirpe” con pene da due a cinque anni, era troppo drammatico e contraddittorio con la nuova aria dei tempi, specie dopo la vittoria del divorzio nel referendum del 1974. Così attorno al tema nacque e si sviluppò il movimento delle donne, con tutte le sue varianti. Il primo, tra i gruppi organizzati, fu il “Movimento di liberazione della donna” (Mld), presto federato con il partito Radicale di Marco Pannella: fra i suoi obiettivi principali, proprio la legalizzazione dell’aborto e un referendum per ottenerla. Al contrario “Rivolta femminile”, il movimento che faceva capo alla neofemminista Carla Lonzi, nel suo manifesto dichiarava “decaduta di fatto” la legge antiabortiva «in nome dei milioni di aborti a cui sono costrette le donne». In un’ottica ancora diversa un’altra propaggine radicale, il Cisa diretto da Adele Faccio (dove presto si attiverà la giovane Emma Bonino) che scelse le iniziative concrete della disobbedienza civile: Bonino accompagnava periodicamente gruppi di donne di altre città ad abortire clandestinamente a Firenze, nell’ambulatorio del ginecologo radicale Giorgio Conciani; un altro gruppo femminista, il Crac, organizzava viaggi analoghi a Londra.

vedi anche:

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Aborto, quella copertina de L'Espresso

Era il 10 gennaio del 1975. L'Espresso mise in copertina una donna incinta messa in croce. Il numero fu sequestrato per "villipendio alla religione e il direttore dell'epoca, Livio Zanetti venne denunciato

Tutto questo andirivieni non sfuggì alla polizia, che nel gennaio del 1975 fece irruzione nella clinica fiorentina e oltre a Conciani arrestò quaranta donne in attesa dell’intervento. Scattarono le manette anche per Adele Faccio ed Emma Bonino, oltre che per il segretario radicale Gianfranco Spadaccia. Era la prima volta dalla fine del fascismo che veniva arrestato un segretario di partito. Anche la stampa finì sotto tiro: “L’Espresso”, che aveva pubblicato in copertina l’immagine di una donna incinta, nuda e inchiodata a una croce, fu sequestrato per vilipendio della religione e il direttore Livio Zanetti denunciato. Diverse manifestazioni di protesta si tennero in varie città italiane e i radicali riuscirono a raccogliere le firme per un referendum sull’aborto, a cui non si giunse per lo scioglimento delle Camere, nel 1976. Intervenne però la Corte Costituzionale che dichiarò non punibile l’aborto terapeutico in base al principio che il diritto alla vita e alla salute di «chi è già persona» non è equivalente a quello di chi «persona deve ancora diventare». Fu un’apertura importante e anche il Parlamento si mosse con un testo dove l’aborto veniva dichiarato lecito, ma con la decisione finale spettante al medico anziché alla donna.

Il movimento, cresciuto tumultuosamente,si rivoltò e il 6 dicembre a Roma 20 mila donne sfilarono per le strade gridando «Vogliamo l’autodeterminazione», cioè la libertà e la responsabilità di «decidere del nostro corpo». Per sottolineare questa posizione le donne del movimento chiesero ai maschi di non partecipare al loro corteo. Vennero contestati anche i leader di sinistra: «Berlinguer, non passerai sulla pancia delle donne», era uno degli slogan ricorrenti; negli anni del compromesso storico con la Dc aleggiava infatti il sospetto di un Pci troppo cedevole su temi cari ai cattolici e al Vaticano. E in effetti nella proposta comunista era prevista addirittura, per la decisione finale, una commissione di tre esperti, quasi un piccolo tribunale. A svolgere una mediazione importante ci pensò l’Udi, la storica associazione delle donne della sinistra, che si era battuta per l’autodeterminazione. Così, quando la Dc e i neofascisti del Msi fecero passare con un colpo di mano un articolo che di nuovo definiva l’aborto come un reato, il movimento mise in atto la sua manifestazione più grande, quella “delle 50 mila donne”. Per la prima volta sfilò anche l’Udi e Berlinguer capì che la libertà femminile andava riconosciuta fino in fondo. La legge 194 passò nella primavera del 1978 e fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 22 maggio. Non tutti i cattolici la digerirono, e alcuni fra l’altro rinfacciarono ai laici e alla sinistra di averla fatta approvare nei giorni drammatici della prigionia e dell’assassinio di Aldo Moro, 
quasi approfittando dello sbandamento della Dc. I radicali 
e un’ala del femminismo chiedevano al contrario la liberalizzazione completa, anche per le minorenni. Si arrivò così, nel maggio del 1981, a due referendum abrogativi di segno opposto: uno per cancellare e uno per ampliare la legge 194. Entrambi furono bocciati. Quello dei cattolici oltranzisti 
si scontrò con il 68 per cento di No, 9 punti in più del referendum sul divorzio. La legge 194 era salva.

 



tb (15/05/2018 10:28)

argomento interessante da trattare nel tempo libero...a meno che non si abbia in comune un cxxxx da fare 

La 194 è una legge sacrosanta (15/05/2018 08:20)

Manifesto prolife a Roma, cosa c’entra l’aborto con lo sterminio delle donne?

Quando eravamo piccole, noi degli anni Settanta, le nostre nonne ancora ci dicevano di non mettere la minigonna per non incappare nel maniaco di turno. “Te la vai a cercare”. Quante volte abbiamo sentito questa frase e quante volte la sentiamo ancora oggi, a distanza di quasi 50 anni, magari sussurrata dai “malpensanti” di fronte alla conta oscena di donne violentate o uccise. Se l’è cercata. Come se, rispetto alla brutalità di uomini che sarebbe un complimento definire animali, la responsabilità fosse anche nostra. Sono le frasi dette a mezza bocca, in famiglia o tra i tavolini di un bar, che nessuno potrebbe mai pronunciare ad alta voce. Fino a oggi.

14 maggio 2018. Sui muri della capitale appaiono dei nuovi manifesti: un pancione sullo sfondo e, a caratteri cubitali, la scritta “L’aborto è la prima causa di femminicidio nel mondo. #stopaborto”. Avete letto bene, non ci sono refusi. Quei “paladini della vita” di CitizenGo si sono inventati una campagna anti aborto (la legge 194 compie 40 anni il 22 maggio) in vista di una prossima marcia. Ed evidentemente sperando nel “purché se ne parli”, hanno pensato male, anzi malissimo, di associare l’interruzione volontaria di gravidanza allo sterminio delle donne


Cosa c’entra?, mi ha chiesto qualcuno. C’entra, eccome. E il centro (mi si perdoni il gioco di parole) sta proprio in quel termine: volontaria. Io interrompo volontariamente la mia gravidanza, io volontariamente mi faccio ammazzare (magari perché ho lasciato mio marito e quindi me la sono andata a cercare). In entrambi i casi, la colpa è mia.

Ora, al di là del fatto che la 194 è una legge sacrosanta, semmai non applicata fino in fondo e messa sotto scacco dai troppi medici obiettori – vedi alla voce Lazio – e al di là del fatto che nessuno, ripeto nessuno, può mettere bocca nella libertà personale di ogni donna, è mai possibile che nel 2018 debbano buttarci ancora addosso la responsabilità della violenza che subiamo? E questa volta senza più sussurrarlo al bar, ma ostentandolo sui muri delle città?

Ecco, ai nuovi crociati interessa difendere gli embrioni, tanto le donne sono solo dei contenitori. Allora, perché non rilanciare chiedendo la reintroduzione del delitto d’onore? Così, tanto per ricordarci che siamo ancora nel Medioevo.

Silvia D'Onghia

Il Fatto Quotidiano

Quarant`anni dopo (14/05/2018 22:37)

Quarant’anni dopo la 194

Giù le mani dall'aborto

Una grande battaglia civile. Vinta con una buona legge. Il numero è in calo. Ma ancor oggi per tante donne è una drammatica lotteria. Tra interventi clandestini, false obiezioni di coscienza e pillole d’emergenza trovate on line

di Susanna Turco

14 maggio 2018

 
Era una «tragedia italiana», è stata una battaglia collettiva, simbolica, epocale. Una rivoluzione. «Imperfetta ma riuscita», come ha detto il medico e scrittore Carlo Flamigni. Dove è finita, quarant’anni dopo, la legge 194? Dirlo fuori dai cliché è difficilissimo. «Qualche tempo fa eravamo stati chiamati dagli studenti di un liceo di Roma, per discutere Mina Welby del fine vita e io di aborto. Mentre parlava lei i ragazzi erano affascinati, quando è venuto il mio turno erano, invece, distratti. Come se, sotto sotto, si domandassero: questo non è un problema, perché ti riscaldi tanto? Ma che cosa vuoi?». Mirella Parachini, ginecologa pioniera della 194 e attivista radicale, racconta così, con franchezza e ironia, l’ultima frontiera, il punto in cui la ruota si è fermata, per adesso almeno. Per i liceali del 2018, del resto, la legge che rende le donne libere di scegliere sull’interruzione di gravidanza è ancora più lontana di quanto non fosse, per i liceali del 1978 , il diritto di voto femminile. Un frammento delle cronache dell’epoca aiuta a misurare i passi: «Per noi l’autodeterminazione della donna, ormai, è diventata un principio intoccabile», proclamava alla Camera, in piena trattativa sulla legge, D’Alema a Ciriaco De Mita. Ma era D’Alema nel senso di Giuseppe, il padre di Massimo.

Da quell’«ormai» sono passati quarant’anni. Dal milione e mezzo di aborti clandestini stimati dall’Unesco per l’Italia dei primi anni Settanta, e gli 84 mila effettuati nel 2016 secondo legge, i termini della questione si sono fatti «più sottili». Tra l’applicazione a macchia di leopardo, che in alcune regioni d’Italia muta il diritto «in una drammatica lotteria», come dice Stefania Cantore dell’Unione donne in Italia parlando della situazione difficile di Napoli e Campania, i toni spesso a torto pimpanti delle relazioni ministeriali, le campagne violente da parte degli anti-abortisti, che si sono preparati all’anniversario affiggendo a Roma il cartellone con il feto più grande che la storia ricordi. In mezzo a tutto ciò, si viaggia anche su altri canali di un diritto acquisito. Che va difeso “Per non tornare nel buio” come recita il recente libro di Livia Turco: ricordando, come dice Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, che «la 194 tutela la salute delle donne, che quindi renderla inapplicabile significa volerle colpire»; o lottando per migliorare, con una maggior diffusione dei farmaci, o per la contraccezione gratuita. Ma senza tralasciare il dato di fondo: la legge funziona, nonostante molte criticità.

«Ci sono cose che non vanno, ma non bisogna fermarsi alla lamentela. Se guardo indietro, benedico una legge che è servita a portare avanti la libertà delle donne di scegliere su se stesse», dice ancora Parachini. Un diritto conquistato e in parte svuotato. Non solo per le difficoltà di accesso: anche perché, come racconta uno studio Istat elaborato in occasione dei 40 anni della 194, in Italia si fanno meno figli e in età più avanzata, è entrata in gioco la contraccezione d’emergenza (enorme la crescita di questi anni), e tra bassi tassi di fecondità e bassi tassi di aborti (tra i più esigui dei paesi occidentali), la questione si è spostata, è andata da un’altra parte.

Molise, il caso limite
Saltano all’occhio, ad esempio, i dati raccolti per L’Espresso   un sondaggio  secondo il quale il 90 per cento dei ragazzi interpellati, età compresa tra i 15 e i 18 anni, non è mai entrato in un consultorio; solo il 6 per cento crede che funzionino; soltanto il 4 andrebbe lì a parlare di una eventuale gravidanza. Fotografia di un fallimento. Ben oltre la realtà di una rete che ha sempre faticato ad avviarsi. La 194, in effetti, faceva dei consultori una pietra angolare del contatto con le donne, il primo punto di riferimento, dall’educazione alla contraccezione al rilascio del certificato per abortire. Un ruolo mai davvero sviluppato. Nel 1980 c’erano 917 consultori - nessuno in Molise, quattro in Sicilia. In trentasei anni se ne sono aggiunti appena mille.

 

Utero mio non ti conosco: cosa pensano (e non sanno) i giovani dell'aborto

Scarsa consapevolezza e educazione sessuale. 
Unico aiuto: la Rete.  E un quarto dice no all’aborto. Abbiamo posto 10 domande a 1500 ragazzi under 18. Ecco cosa hanno risposto

 


Nell’ultima relazione del ministero della Sanità, infatti, i consultori censiti risultano 1.944 (4 in Molise), pari a un tasso dello 0,6 per ventimila abitanti (per legge quel tasso dovrebbe essere 1, cioè quasi il doppio). «È chiaro che i ragazzi non frequentano i consultori, è un dato di evidenza: perché non li conoscono», spiega Anna Pompili, cofondatrice di Amica (Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto): «Ormai i consultori non riescono più ad andare nelle scuole. Sono ridotti a fare le veci degli ambulatori. Hanno equipe ridotte all’osso, non si riesce a gestire nemmeno l’ordinario».

 La realtà è lontana anche dalle statistiche: «I dati ministeriali non la fotografano. Nella regione Lazio, ad esempio, sotto la voce “consultori” ci sono anche centri vaccinali, per disabili, di psichiatria infantile. A Milano, su 33 consultori, 12 sono privati e, di questi, 10 sono confessionali. Come può parlare di contraccezione il consultorio Massimiliano Kolbe? Al massimo, se va bene, parla di metodi naturali e della loro straordinaria efficacia», dice Pompili. Che porta un altro esempio: «Ho lavorato al consultorio di Cesano di Roma, una frazione importante, più di 10 mila abitanti e tante donne immigrate. In poco tempo sono andate in pensione, progressivamente: assistente sociale, ostetrica, psicologa. Alla fine eravamo rimaste in due ginecologhe con una infermiera. La Asl ci ha spostato ad altri consultori: ufficialmente però quello di Cesano resta aperto, c’è una infermiera due volte a settimana che risponde alle telefonate. E una ginecologa che va a fare i pap test ogni tanto». Sempre nel Lazio, la consulta dei consultori nel 2014 ha fatto una indagine, dalla quale risultava poco più della metà dei consultori avevano equipe mediche complete, e nella grande maggioranza dei casi i locali riuscivano a restare aperti due giorni su sette. La stessa relazione del ministero della Salute, in effetti, non nasconde la problematica di una «non adeguata presenza sul territorio». Che è alla base anche della scarsa diffusione dei metodi contraccettivi tra i giovani, un punto sul quale l’Italia continua a non brillare a paragone con il resto d’Europa

 

Aborto, come arrangiarsi nell’Italia degli obiettori

È una questione di fortuna: dipende da dove abiti,  dai dottori che incontri, dalla disponibilità del servizio quel giorno. A volte ci si deve affidare  a metodi non ufficiali


Benedette pillole
Calano gli aborti: ogni anno sono un po’ meno, sulla serie lunga dagli oltre 200 mila della fine dei Settanta, fino agli 84 mila del 2016. Ovviamente anche perché cambiano gli stili di vita. Di questi anni è ad esempio il boom della contraccezione d’emergenza. Con l’entrata in commercio della pillola dei cinque giorni dopo (2012) e l’abolizione dell’obbligo di ricetta le vendite si sono moltiplicate: secondo i dati Aifa, la distribuzione della pillola dei cinque giorni dopo è schizzata dalle quasi 7,7 mila confezioni del 2012, alle 189 mila del 2016; e quella della Norlevo, nota come “pillola del giorno dopo”, nel 2016 ha registrato un dato di vendita pari a 214,532 confezioni, in aumento rispetto al 2015 in cui registrava 161,888 confezioni distribuite. Il che porta dritti alla domanda: «Visto che proprio per le giovanissime, negli ultimi anni, la percentuale di aborti non è calata, perché non rendere più facile l’accesso a questi farmaci anche per le minorenni?», dice Parachini.

Il buco nero del sommerso
I dati sono comunque in discesa. Non solo tra le italiane. Ma anche tra le immigrate, che rappresentano circa un terzo delle interruzioni totali, ma il cui tasso di abortività è in calo da qualche tempo. Tutto a posto dunque? Fino a un certo punto. «In ospedale poco tempo fa c’erano tante nigeriane, che improvvisamente sono tutte scomparse», racconta Pompili: «Il ministero si rallegra per il calo, ma non si domanda dove siano finite, quelle nigeriane. Oltre a sbandierare che siamo sotto i centomila aborti l’anno, si dovrebbe domandare se queste donne abbiano improvvisamente smesso di abortire, o se magari siano andate altrove», nota Pompili. Il sospetto, non riscontrabile in dati, è che in parte il fenomeno ritorni nel privato, fuorilegge, in casa, tra le mura. Non più mammane e ferri da calza, certo. La contemporaneità porta strumenti che prima non c’erano: il web e i farmaci. Via internet si ricava qualsiasi informazione, comprese tutte quelle necessarie ad abortire. Si può sapere a chi rivolgersi per ottenere ricette e certificati, si può trovare un qualsiasi aiuto e ogni genere di istruzione, ci si può anche procurare i farmaci necessari ad abortire. Una procedura più rischiosa, oltreché illegale: ma rendere difficili gli aborti spinge anche in quella direzione. Verso il Cytotec, ad esempio, un farmaco che una volta serviva per le ulcere gastriche. Così, in ospedale ci si finisce d’urgenza.

Quanto ai numeri, difficile quantificare i fuorilegge. Il ministero della Salute pubblica i dati Istat derivati da un modello statistico, che peraltro è invariato da anni. Secondo questi studi, a situarsi fuori dalla legge sono tra i 12 e i 15 mila aborti l’anno, più 3-5 mila delle straniere. Come racconta Filomena Gallo, però, i segnali concreti di questo fenomeno da una parte ci sono, dall’altra sono pochi. La relazione annuale del ministero della Giustizia (anche in via Arenula devono dire ogni anno come sta andando la 194 dal loro punto di vista) segnala che nel 2016 ci sono stati 33 procedimenti penali per violazione della 194, con 42 persone coinvolte. Troppo poche, in rapporto ai 20 mila stimati dall’Istat. Una esiguità che peraltro lo stesso rapporto del ministero della Giustizia sottolinea: quasi fosse una buona notizia, quando invece si tratta del segno di un mistero. Ma allora, come tornano i conti?

Ci sono solo piccolissimi segnali che indicano direzioni possibili. Ad esempio Women on web, un’organizzazione digitale “per il diritto all’aborto” con sede ad Amsterdam, invia per posta, a chiunque ne faccia richiesta, la combinazione di misoprostolo e mifepristone (le due pillole per l’aborto farmacologico) nei Paesi dove la pratica o è illegale o è inaccessibile: ebbene, secondo dati non ufficiali, le italiane li cercano sempre di più: 28 donne nel 2013, 53 nel 2014, 278 nel 2015, fino alle 474 del 2017. I numeri sono relativi, il trend però chiarissimo. Se questi sono i dati di chi sostiene la libera scelta della donna senza fini di lucro, c’è solo da supporre cosa possa accadere nei vasti mondi in cui il guadagno c’entra eccome. Per lo meno, significa che qualcosa non funziona, più di quanto le esultanze ministeriali non dicano.

In Italia del resto l’aborto farmacologico stenta a decollare: entrato in commercio nel 2009, in meno di dieci anni è passato dallo 0,7 al quasi 16 per cento del totale degli aborti. Una crescita veloce, che però è scarsissima, rispetto agli altri paesi in cui è consentito l’utilizzo della Ru486. «Tutti gli altri paesi europei sono sopra il 50 per cento», spiega Anna Pompili. Ci sono limitazioni oggettive, nel nostro Paese, che potrebbero essere superate. Ad esempio, nonostante la commercializzazione sia avvenuta attraverso il meccanismo del mutuo riconoscimento, l’Aifa ha stabilito che le italiane possono utilizzare la Ru486 fino alle sette settimane (49 giorni) mentre negli altri paesi europei il limite è più ampio e arriva a 63 giorni e le ultime raccomandazioni della Fda allargano il regime a settanta giorni, raccomandando che la somministrazione avvenga in casa. Da noi invece nella maggior parte delle regioni è ancora necessario il ricovero ospedaliero di tre giorni. Altro che casa. «Gli stessi farmaci servono per gli aborti spontanei: ma in quei casi, sempre secondo Aifa, possono essere somministrati in ambulatorio. Invece se si tratta di aborti volontari, no», dice Pompili.

Dove il diritto non esiste
Ovviamente, come racconta chi se ne occupa, se si affermasse l’aborto farmacologico sarebbero superati due dei limiti più gravi nell’applicazione della 194: l’obiezione di coscienza dei singoli medici e delle intere strutture ospedaliere. L’ultimo elemento, fa si che la 194 sia garantita, di fatto in poco più di metà delle strutture (si sfiora giusto adesso il 60 per cento): in teoria, invece, dovrebbe essere il cento per cento. Parachini è lineare: «La legge lo dice benissimo. L’ente ospedaliero è tenuto in ogni caso, in ogni caso ad assicurare l’espletamento. 

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È una questione di fortuna: dipende da dove abiti,  dai dottori che incontri, dalla disponibilità del servizio quel giorno. A volte ci si deve affidare  a metodi non ufficiali

L’espletamento, non il trasferimento». In pratica, infatti, tutto ciò significa che per interrompere la gravidanza è necessario spostarsi. Di provincia o di regione. Anche in questo caso i dati del ministero sbiadiscono il fenomeno, perché pubblicano i dati su base regionale. Ma già se, grazie all’Istat si scende a livello di provincia, il discorso è un po’ più chiaro: città come Isernia, Crotone, Frosinone o Fermo totalizzano zero aborti. Là è impossibile interrompere la gravidanza. Le centinaia di donne che ne hanno avuto necessità, sono emigrate per lo meno nella provincia più vicina. Quando non fuori regione. Accade anche l’inverso, come racconta ad esempio il caso di Petralia Sottana, tremila abitanti e almeno 300 donne che ogni anno arrivano da fuori per fare gli interventi di interruzione di gravidanza, in una regione dove l’obiezione supera l’86 per cento.

Gli ostacoli che si incontrano sulla strada dell’interruzione non sono tutti visibili al primo colpo d’occhio. L’ultimo emerso in ordine di tempo è quello di Napoli dove, certificato da una inchiesta del Mattino, è saltato fuori che il Pertini accetta fino a sette persone al giorno, e il Cardarelli fino a quattro il martedì e il giovedì. In una regione dove da anni non si riesce a quantificare quanti siano gli obiettori di coscienza. Gli ultimi dati, del 2013 e comunque parziali, parlano dell’81,8 per cento dei ginecologi.

È proprio l’obiezione a restare l’aspetto più critico di tutti. Percentuali altissime, picchi che sfiorano il 90 per cento, come in Basilicata, o casi da fiction, come il caso di un unico “non obiettore” in tutto il Molise. Il tema si è posto fin dall’inizio. Già nel 1980 gli obiettori erano il 70 per cento della popolazione medica. E, nonostante la vertiginosa discesa del numero di aborti, la situazione non accenna a migliorare, anzi. Il numero dei “non obiettori” continua a calare: un po’ perché molti raggiungono l’età della pensione, come ha segnalato la Laiga già tre anni fa, un po’ perché la prevalenza di medici obiettori ai vertici di ospedali e università non incentiva certo a prendere quella strada. Nel 2016, al congresso Fiapac di Lisbona sono stati presentati i risultati di un questionario sottoposto agli specializzandi in ginecologia delle università romane. Ebbene, un medico su tre aveva una conoscenza «insufficiente» della 194 e solo il 15 per cento si era occupato di interruzione volontaria, contro il 74 per cento che invece aveva affrontato gli aborti spontanei. Senza formazione, è difficile poi spingersi a scegliere quelle strade.

Idea: cambiare i concorsi
Ma come mai, anno dopo anno, il ministero certifica che «non ci sono particolari criticità nell’erogazione del servizio di Ivg», mentre invece dalle realtà locali arrivano notizie talvolta drammatiche? Silvana Agatone, presidente di Laiga, spiega: «Per arrivare ai dati che diffonde il ministero, ogni anno noi medici riempiamo una scheda, un foglio per ogni aborto. Accade che, se io vado in pensione, non faccio più schede. La ministra Lorenzin dirà: bene, sono calati gli aborti. Fa ridere? È questo quel che accade: non ci sono rilevazioni sulla richiesta di interrompere la gravidanza, ma solo sugli aborti effettuati. Se, ad esempio, il San Camillo di Roma riesce a offrire dieci posti al giorno ma la richiesta è di trenta, delle donne che restano fuori nessuno sa nulla, al ministero non arriva. A Trapani c’era un “non obiettore”. Faceva ottanta interruzioni al mese. È andato in pensione: non si sono fatti ottanta aborti. Domanda: dove sono finite le donne che non hanno potuto abortire a Trapani?». Invece, nessuno lo chiede: quando diminuisce l’offerta magicamente sembra diminuire anche la domanda. Chiosa di Parachini: «Al che, la ministra fa una cosa geniale. Prende il numero degli aborti, prende il numero degli obiettori, fa la divisione e conclude: ammazza, i “non obiettori” avanzano. La verità è che si tratta di un calcolo demenziale».

Se è per questo, c’è chi l’obiezione vorrebbe toglierla del tutto. E chi pensa che i due diritti possano continuare a convivere. Ma, spiega Filomena Gallo, comunque «servirebbe una legge per disciplinare l’obiezione di coscienza, magari per impiegare in modo diverso chi fa quella scelta. Servirebbe anche un albo pubblico dei medici obiettori, cosicché le donne possano scegliere da chi farsi seguire, e la garanzia dei concorsi divisi a metà: cinquanta per cento dei posti per gli obiettori, l’altro cinquanta per i non obiettori».

Proprio attorno a questo tema si muovevano le (poche) proposte di legge per modificare la 194 nell’ultima legislatura: avanzate, in termini diversi, da sinistra, Forza Italia e Cinque stelle. Non che gli attacchi alla 194 siano finiti. Anche se siamo lontani dall’epoca in cui Giuliano Ferrara chiedeva «la moratoria», le associazioni degli integralisti dell’antiaborto non hanno perso vigore. L’iniziativa più recente è quella di Pro-vita onlus, che si è appoggiata ai senatori di Lega e Fratelli d’Italia per promuovere, anche dalle aule del Senato, una campagna in cui chiede al ministero della Salute di diffondere fantomatiche informazioni «relative ai danni che l’aborto può causare alla salute delle donne». Ed è già alle viste un convegno sulla denatalità e un corteo anti-aborto. Buon anniversario, legge 194.
© Riproduzione riservata14 maggio 2018